Pensami nel bene

misli-name-ko-ti-je-lepoQuesta storia, pubblicata dalla maggior casa editrice slovena, ha ottenuto un notevole riscontro e delle ottime recensioni.

In termini di genere, potrebbe rientrare nel cosiddetto Romanzo dell’Io (Shishōsetsu) di derivazione giapponese. La scrittura diventa strumento di indagine e rivelazione di fatti realmente accaduti nella vita dell’autore, che però non sono proposti come autobiografici, bensì rielaborati in senso letterario. Nella fattispecie, la narrazione prende avvio dalla morte del padre dell’autrice, spento da un cancro.

Tutto si svolge concretamente nel giro di qualche giorno, ma il racconto del presente luttuoso è costantemente interrotto da flashback e riflessioni esistenziali. Sulle prime tutto sembra essere rivissuto e distorto dalla prospettiva di una bimba trascurata e ferita; man mano che si procede emerge la visione di una donna in cerca di una propria dimensione; infine predomina lo sguardo di un osservatrice adulta che, raggiunta la sua maturità emozionale, individua l’unica conclusione possibile: considerata la nostra transitorietà, la sola soluzione per vivere in armonia con se stessi e il mondo è l’accettazione della vita con tutti i suoi pregi e i suoi difetti.

Questo breve romanzo rivela una scrittura ricca e profonda che tiene avvinti alla lettura tramite svolte improvvise e incredibili, seguendo un percorso interiore a volte accidentato, ma sempre pertinente. Lo si potrebbe definire un viaggio introspettivo che rispolvera ricordi dolorosi, ma altrettanto dolci e malinconici, in ogni caso intensi dal primo all’ultimo.

Da lettori si entra in causa quali testimoni di un prolungato addio sottoforma di onesta introspezione che passa attraverso tanti quesiti irrisolti, analizzando soprattutto il rapporto conflittuale col padre. Nel contempo assistiamo, però, a quello che probabilmente è il primo vero incontro tra un padre e una figlia, al loro reciproco riconoscimento e alla loro reciproca accettazione seppur postuma. Si passa attraverso tutta una gamma di emozioni che non possono non far vibrare le corde del cuore, se è vero che – come scrive Maja stessa – “tutti abbiamo un padre, non lo possiamo evitare”, a prescindere dai confini, dalla nostra cittadinanza o dalla lingua che parliamo. Così risulta quasi naturale calarsi nei panni dell’io narrante e seguirlo in questo suo cammino alla scoperta del senso della sua/nostra esistenza terrena. Un cammino toccante, illuminante, sorprendentemente ironico, che passa per la vita e per la morte, non considerate però punto di partenza e di arrivo, bensì due tappe di un’avventura ben più ampia che vale la pena di sperimentare da cima a fondo con gratitudine.

Questa storia, pubblicata dalla maggior casa editrice slovena, ha ottenuto un notevole riscontro e delle ottime recensioni.

In termini di genere, potrebbe rientrare nel cosiddetto Romanzo dell’Io (Shishōsetsu) di derivazione giapponese. La scrittura diventa strumento di indagine e rivelazione di fatti realmente accaduti nella vita dell’autore, che però non sono proposti come autobiografici, bensì rielaborati in senso letterario. Nella fattispecie, la narrazione prende avvio dalla morte del padre dell’autrice, spento da un cancro.

Tutto si svolge concretamente nel giro di qualche giorno, ma il racconto del presente luttuoso è costantemente interrotto da flashback e riflessioni esistenziali. Sulle prime tutto sembra essere rivissuto e distorto dalla prospettiva di una bimba trascurata e ferita; man mano che si procede emerge la visione di una donna in cerca di una propria dimensione; infine predomina lo sguardo di un osservatrice adulta che, raggiunta la sua maturità emozionale, individua l’unica conclusione possibile: considerata la nostra transitorietà, la sola soluzione per vivere in armonia con se stessi e il mondo è l’accettazione della vita con tutti i suoi pregi e i suoi difetti.

Questo breve romanzo rivela una scrittura ricca e profonda che tiene avvinti alla lettura tramite svolte improvvise e incredibili, seguendo un percorso interiore a volte accidentato, ma sempre pertinente. Lo si potrebbe definire un viaggio introspettivo che rispolvera ricordi dolorosi, ma altrettanto dolci e malinconici, in ogni caso intensi dal primo all’ultimo.

Da lettori si entra in causa quali testimoni di un prolungato addio sottoforma di onesta introspezione che passa attraverso tanti quesiti irrisolti, analizzando soprattutto il rapporto conflittuale col padre. Nel contempo assistiamo, però, a quello che probabilmente è il primo vero incontro tra un padre e una figlia, al loro reciproco riconoscimento e alla loro reciproca accettazione seppur postuma. Si passa attraverso tutta una gamma di emozioni che non possono non far vibrare le corde del cuore, se è vero che – come scrive Maja stessa – “tutti abbiamo un padre, non lo possiamo evitare”, a prescindere dai confini, dalla nostra cittadinanza o dalla lingua che parliamo. Così risulta quasi naturale calarsi nei panni dell’io narrante e seguirlo in questo suo cammino alla scoperta del senso della sua/nostra esistenza terrena. Un cammino toccante, illuminante, sorprendentemente ironico, che passa per la vita e per la morte, non considerate però punto di partenza e di arrivo, bensì due tappe di un’avventura ben più ampia che vale la pena di sperimentare da cima a fondo con gratitudine.

Tra le righe si percepisce la presenza di uno spirito forte che lascia nel lettore una scia di sé altrettanto forte: questo libro è da considerarsi come una vera e propria esperienza.

Tra le righe si percepisce la presenza di uno spirito forte che lascia nel lettore una scia di sé altrettanto forte: questo libro è da considerarsi come una vera e propria esperienza. (Traduzione: Martina Clerici)

CAPITOLO I

Era un giorno d’estate. Lo sapevo, lo sapevo ormai da tempo, che avrei dovuto prepararmi a questo. E guardando il colle dei cipressi, mi chiedevo quando sarebbe scoccata l’ora, se in estate o in inverno. Intanto nella mente passavo in rassegna il mio guardaroba. Volevo assicurarmi di avere vestiti neri a sufficienza, cappotti, maglioncini, gonne estive, in particolare indumenti quattro stagioni. Già, ecco a cosa pensavo. E mi domandavo se sarei stata abbastanza presente, raccolta, se avrei retto, se sarei stata davvero triste, se avrei saputo accomiatarmi. O avrei pianto? Mi guardo allo specchio, sto aspettando la prova generale. Scoppio a piangere chiedendomi se la mia non sia tutta una recita. I miei occhi sono gonfi. È la stessa storia da qualche giorno. Ma ancora stento a farmene una ragione. Insomma, come dire addio a qualcuno che in realtà non ho mai invitato a casa mia, a qualcuno a cui non ho mai dato il benvenuto? Come si fa? Lo cerchi a lungo e poi, quando credi di averlo trovato, devi seppellirlo. Che colpo di scena, degno di una commedia. Bandisci i pensieri sulla fine che svolazzano qua e là come moscerini impazziti attorno a un cocomero maturo. Li scacci via, ma loro ritornano con maggior insistenza. Ritornano come ospiti sgraditi, così finisci col pensare che siano la reincarnazione di tutti i tuoi avi venuti a comunicarti qualcosa. Qualcosa che non sono riusciti a confidarti da vivi. Quindi i pensieri si mischiano ai sensi di colpa. Se lui è ancora qui, come puoi pensare alla sua morte? Vedi il suo corpo, lo vedi deperire e ridursi a niente. Riposa disteso sul divano. Potrebbe ancora camminare, se solo volesse, ma non vuole. E non scacci via solo i pensieri, ormai la sola vista è penosa. Quando guardi i suoi polpacci scarni, non credi ai tuoi occhi, finché non solleva il lenzuolo e scorgi le cosce che non sono più cosce, ma solo ossa avvolte nella pelle che ti riportano alla mente i bambini africani malnutriti o i deportati nei lager. Lui, che per tutta la vita si è sforzato di dimagrire. Lui, con la pancia e gli occhi pingui. Eppure discorriamo del tempo che fa, blateriamo di una pomata che potrebbe indurre il sangue pigro a circolare nelle vene, del gel di ginepro che giova molto, dell’arnica portentosa che allevia il dolore. Ma taccio, zittita nel mio intimo, trattengo il respiro, ammutolisco, quando comincia a tossire e annaspa, anche l’ossigeno serve a poco. In un angolo della stanza ci sono una bombola, una cannula e la mascherina trasparente. Lui dice: fa niente, respiro con le branchie. Questo humor nero ci strappa un sorriso. So, so tutto, benché non voglia sapere: quel momento è giunto, ci siamo. Fintanto che ero lontana, altrove, in città, le cose potevano andare, vero? La mia verve attoriale sapeva, vedeva, imparava. Ma stare qui è un’altra cosa. Non ne sono capace. Non ce la faccio. Vado a prendere un caffè con un collega. Siedo in riva al mare all’ombra di un castagno. Sono bella, curata. Il passaggio dalla primavera all’estate mi rende sempre così fresca, ma tento di assumere un’espressione amareggiata, dico che è dura, che l’ora si avvicina. E di nuovo non so se sono sincera o se invece sto solamente recitando la parte di una creatura triste che ripassa il suo ruolo di prefica per quando sarà ora di entrare in scena. In cambio ricevo uno sguardo compassionevole, ben studiato, la sua mano sulla mia, una stretta, forse una carezza. E un bacio sul collo che mi spiazza. Un bacio di partecipazione, forse commiserazione, anzi no, un bacio d’amore. E finisce tutto lì, finché svolto l’angolo e penso: ho tradito un’altra volta. Me stessa, te, lui. L’ho condannato a sparire prima dell’ora. Comunque so che è così. La vita è irreversibile. E prima o poi la profezia si avvera. Mi ha invitata a pranzo. Era di lunedì. Quasi sapesse che stava vivendo le sue ultime ore. Oh, che delizia! Ma tu non mangi? Hai già mangiato? Mangerai più tardi? Farfuglio. Mento. Noto che non porta la dentiera, teme di vomitare e so che non mangia perché non può. Continuo a fingere di non aver mai mangiato zucchine e sarme[1] così gustose, sono una specialità, l’uovo sbattuto nella panna è un’idea originale e buonissima. Il cane mi scruta con occhi spenti. Un barboncino bianco afflitto. È sdraiato accanto a lui, lui lo manda via. Ha caldo, sostiene. Il cane sa, perciò non fa le sue solite scene. Adesso se ne sta accucciato lì accanto e lo guarda mogio. Vuole riscaldarlo, vuole stargli vicino. Il cane. Già, il cane vorrebbe, invece io non posso. E non so perché. Sì, vorrei, mi piacerebbe, ma non so trovare il modo. Prima di andarmene, aspetto che mi tenda la mano. La tende, ha lo sguardo perso in lontananza, guarda oltre. Perciò non ci riesco. Anche perché le sue ultime ore si sono ingarbugliate, d’altronde la matassa è sempre stata ingarbugliata dacché ricordo. Come una klopka annidata in me, una trappola tesa nel mio animo, come un labirinto senza uscita. Dacché ho cominciato a capire la lingua dei suoi interminabili piagnistei quando tornava a casa ubriaco, in ritardo, già, sempre più tardi. Si lamentava che nessuno lo comprendeva, nessuno gli voleva bene. Diceva che non avrebbe retto, che si sarebbe levato dal mondo… è da quella volta che non so più come fare. Proprio così, minacciava di suicidarsi. La sua morte pendeva perennemente sulle nostre teste come una minacciosa spada di Damocle. Era un violento ricatto psicologico. Ora carico l’arma, mi sparo, prima ammazzo e poi mi ammazzo io. Con le mani mi tappavo occhi e orecchie, per non vedere il sangue, per non sentire gli spari. Ricordo solo il tonfo di mia mamma sul linoleum, una notte che cadde sulle ginocchia. Uno schiocco metallico, ma altrove. Papà distrusse l’armadio. L’ho ben presente ancora oggi quella notte, il forellino coi bordi frastagliati nel pannello truciolato, e sento le suppliche di mia madre: No, no, no, per carità. Vedrai che andrà meglio, domani è un altro giorno. Sento ancora queste parole, le sento come fosse ora, il suo nome mi rimbomba dentro: non farlo. L’indomani mattina tutto è tornato alla normalità cioè al silenzio, come se niente fosse successo. Si alzava sempre per primo, faceva una doccia, andava al lavoro. Prendeva il suo lavoro con molta serietà. Sempre, sempre preciso, il migliore, affidabile. Così si sono espressi nel discorso funebre. Era il migliore, cordiale, frizzante come il mese di maggio che l’aveva visto nascere orfano. Non era orfano. No so dove abbiano scovato questa informazione. Io e mio fratello ci siamo dati una gomitata al cospetto di tutti, lì dov’eravamo, al funerale, perché una madre lui ce l’aveva, una madre che, proprio come lui, ha combattuto contro la morte per anni. Dapprima quando lui decise di sposare mia madre, non poteva certo permettergli di contaminare il loro sangue nobile. Mia madre, infatti, è una semplice contadina, non è di sangue blu, non possiede un pedigree, non vanta alcun lignaggio. E poi si affrettava a morire ogniqualvolta pretendesse di avere il figlio accanto. Minacciava di buttarsi dal muraglione, di ingoiare pillole, di aprire la valvola del gas in cucina, di tagliarsi le vene, di annegarsi in mare. Tutto secondo il copione. La sua misteriosa famiglia, le cui fotografie in bianco e nero a tutt’oggi non mi rivelano niente, aveva partorito, oltre alla genialata del sangue blu, anche la sorniona ruffianeria di zia e zio che si vendicavano della loro madre d’alto borgo spiegandomi con insolenza: Questo si è impiccato, questo ha dilapidato il suo patrimonio giocando ai dadi, questo non si sa che fine abbia fatto, questa metteva le corna al marito, troia, se la faceva con un servo, questa è morta di crepacuore, quest’altra di cancro lasciando un conto segreto in Svizzera e cinque marmocchi illegittimi sparsi chissà dove ai quattro angoli del mondo, questo di diabete e cieco… D’altronde cosa aspettarsi da questa famiglia di matti se non una sorella puttana che si prostituisce con gli ufficiali e poi si sbarazza delle gravidanze indesiderate con i ferri da calza, mentre il fratello detesta le donne e va oltreconfine in cerca di un uomo, di un concubino. Un pederasta, tanto per essere chiari. Erano tutti agonizzanti, la loro era un’agonia cronica, si preparavano al fatidico giorno che si chiama: Quando io non ci sarò più. La zia i polmoni, lo zio i polmoni, papà i polmoni. La nonna nobile, invece, ha goduto di ottima salute fino all’ultimo dei suoi giorni. È morta di vecchiaia. Dicono che la tubercolosi sia una patologia causata dalla mancanza d’amore. La tubercolosi e tutte le altre anomalie polmonari. Difficoltà di respirazione. Asma. Non si riesce a respirare la vita. Che banalità! E infine l’acqua ha loro pervaso entrambi gli ili polmonari. Ili – ali. No, quelle servono per spiccare il volo. Non hanno mai volato, loro. Anzi, papà aveva addirittura paura degli aerei, di rado decideva di servirsene. Quindi non le ali, le ali fatte per volare, bensì gli ili, i lobi polmonari, che tanto somigliano a due ali di farfalla. L’acqua li ha perfusi entrambi, un acqua calda, calda come un’onda d’amore condensatasi negli anni e imbrigliata ai margini delle loro nottate tristi, finché la diga ha ceduto lasciandola traboccare. E una volta straripata, si è abbattuta con irruenza puntando dritto al cuore. Dritto al cuore passando per i polmoni. Il lungo fiume dell’oblio. Un’inondazione d’amore, una confluenza d’amore a lungo represso e quindi disonorato, come tutto ciò che non trova il suo equilibrio al momento giusto. Che ne so. Se non riuscivano a respirare, se non avevano ancora imparato ad accogliere l’aria, che almeno accogliessero l’acqua che è un concentrato di sentimenti. Acqua. Acqua nei polmoni che penetra fatalmente. Fa breccia nell’ammanco. Travolge tutto. Per sempre. Amen. Osservo il suo corpo esile, vi inseriscono un tubo, glielo ficcano a forza dentro la trachea. Sento il gloglottare, il sibilo, il rantolo, il risucchio, cercano di aspirare l’acqua dai polmoni. Il suo torso di maschio, nudo e ossuto, sbatacchia sul letto, lo sballottano come una barca in balia di un fortunale. Sento l’impulso di avventarmi su di loro, vorrei che la smettessero di tormentarlo, vorrei che gli permettessero di sentirsi amato almeno per quei pochi attimi prima del trapasso. Amato almeno un po’ prima che ci lasci. Quanto soli devono essersi sentiti quei bambini. Mio padre, sua sorella e suo fratello. Orfani di cuore. Sono entrati fin da subito in una lunga agonia, nell’eterna attesa di una consolazione. Un’attesa piuttosto drammatica. Ma davvero dobbiamo morire per poter essere amati? Forse la mia vena teatrale l’ho ereditata da loro. Attendere la fine nella rinuncia, nella disciplina, nel controllo fino a ridursi in cenere per poi rinascere da essa come l’araba fenice. Una tristezza sostanziale. Mio padre e sua sorella erano mangiatori compulsivi, sempre sovrappeso, perennemente in bilico tra abbuffate e diete. Lo zio era invece il loro esatto contrario, sempre snello, prima di ogni pasto pesava perfino la pasta sul bilancino della cucina. Cento grammi bastano, ribadiva. Cento grammi, né più ne meno. Una volta i nostri genitori ci affidarono, me e mio fratello, a lui. Ebbene, ci servì una fetta di pane di segale e un bicchiere di sciroppo di lamponi diluito con acqua in abbondanza. Ci mettemmo a tavola, ma dopo appena un paio di orette ci lagnammo di aver fame. Ma lo zio non ci concesse nient’altro. Un pezzo di pane basta, ribadiva. Piangevamo, avevamo fame, ma non ottenemmo niente. Dovevamo aspettare la fine nella rinuncia, nella disciplina, nel controllo fino a ridurci in cenere per poi, come l’araba fenice, rinascere da essa o magari dalla fame. Come se solo la fame ci accordasse il permesso di saziarci. Una tristezza sostanziale. Eroi della fame. Eroi della rinuncia. Che programma benefico ci hanno imposto fin dalla culla! Quando i nostri genitori vennero a riprenderci, lo zio assicurò loro che eravamo stati bravi. Bravi nella rinuncia. Da simili premesse non può che generarsi una donna realizzata, non c’è dubbio. Già, che tristezza.

[1] Involtini di verza con carne tritata e riso.