La Dea in ritardo

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Ines Cergol

La Dea in ritardo?

Lo avete visto dio

come corre per arrivare puntuale alle due e mezza?

(Tomaž Šalamun)

 

La poetessa ha scelto come preludio di questa sua silloge l’intestazione È fuori dal tempo, tralcio luminoso, neve dal dolce incarnato… tratta da «Fragilità degli angeli»1. Sarà un caso? Chi è fragile, imperfetto: gli angeli, una dea, un dio? Oppure il tempo? Dove sta la fragilità o la debolezza: nella giovinezza o nella maturità? Eppoi si tratta veramente di un’imperfezione?

Scrive ancora Bobin: «Eppure tutto ciò che nel mondo è stato scritto, lo scambierei per questi pochi versi: Tramite la voce riconosciuta la poesia comunica / che l’essenza della vita è la bontà, / che dell’invidia e del rancore / nulla resta quando giunge il tempo (P. Verlaine). Cos’altro si può aggiungere, se non qualche scarabocchio sulla carta, un paio di sterili parole? La voce riconosciuta: la riconosciamo perché l’abbiamo già conosciuta, in verità l’abbiamo udita da bambini. Se la maturità è negazione, è negazione di questa voce, di questa semplicità. Disconoscimento o, per meglio dire, dimenticanza. E non siamo forse noi gli unici responsabili delle nostre dimenticanze?».

Dea in ritardo riassume la poetica di Maja Gal Štromar che, insieme ai suoi aneliti presenti (primo ciclo Come è lontano il silenzio alla dipartita della notte…), «rincorre l’infanzia» – le immagini di quand’era bambina, le figure del padre e della madre (secondo ciclo Non se n’è mai andata via, non si è sottratta a nessuno sull’orlo del cerchio…) – per recuperare ciò che ha dimenticato, per ritrovare la voce e, facendo fruttare ciò che ha ri-conosciuto, integrarsi nella totalità, re-interpretare, dare un senso all’incomprensibile, abbandonarsi al miracolo della vita.

Nelle poesie percepiamo un movimento a doppio senso: il movimento di quanti se ne sono andati e il movimento di coloro che sono(siamo) rimasti. Oppure, per dirla con Bobin: «Colui che muore, non si dimentica. Trapassa, ma non è morto; da vivo va incontro alla vita. A essere dimenticato è colui che rimane». E lo sforzo della Dea in ritardo è quello di sottrarsi all’oblio e al mondo conformista (dell’età adulta) tramite il riconoscimento della parola primigenia, dell’immagine primigenia, della chiamata primigenia, della vocazione.

Maja si confessa/racconta con voce di donna: nulla sottace, nulla cela sotto il tappeto. Espone le proprie ferite (non senza un tocco di amara ironia) con il desiderio di svelare, comprendere, definire.

Dall’intimo intento scaturisce anche lo stile poetico.

La poesia d’apertura inizia con una domanda retorica:

È un’alba

nel tramonto

questa porpora

che cala

sui tetti delle città?

Proietta sullo stesso piano la realtà o soltanto il suo riflesso. Ma dove termina la prima, dove comincia il secondo?

Le poesie denotano una sovrapposizione di piani temporali (passato, presente e futuro) che, insieme al modo condizionale, creano un conglomerato di tempo, a seconda dei casi negato o anticipato. In breve, correggono l’errore del tempo ovvero il tempo errato. I versi in corsivo alludono al passato o pongono interrogativi supplementari, ma più spesso sono espressione di una voce interiore (ma che m’importa; perché mai perdio / mi s’impone di continuo / il futuro; si dice che in mia assenza / i fiumi siano esondati…). Allo scopo di cancellare i confini tra significante e significato – per condensare cioè i sintagmi fraseologici o creare neologismi – la poetessa riunisce le parole in blocchi (madreassetatadonnacerbiatto, russanomentonoscoreggiano, pionierabrigadiera, dichiuntemposola, impercettibilecarezza). Una particolarità sta anche nell’essenzialità del verso libero, che nel primo e nell’ultimo ciclo viene sfrondato perfino dai segni d’interpunzione; a scandire il ritmo contribuiscono le ripetizioni in forma di parallelismo. La struttura linguistica e lo stesso lessico lasciano trasparire a tratti un’apparente leggerezza, una certa agilità e nonchalance. L’ordine delle parole invertito e il codice delle formule rituali rievoca una ritmica di stampo tradizionale. Le poesie, prive di titolo, sono numerate e ripartite in tre cicli.

La lirica della Dea in ritardo ha il respiro di una prospettiva epica, entro la quale possiamo seguire le varie situazioni (il commiato vicino al lampione, l’incontro con il padre, il capodanno, il racconto di un sogno…); eppure, più che in una storia, questi episodi sono intrecciati in una struttura drammatica/scenica, per cui sembra che le peripezie accadano qui e ora. L’io lirico – donna che parla in prima persona – ci vincola, mediante la poesia, a un continuo confronto con il monodramma, il cui tempo si cristallizza nel “quipresente”. Perciò non esiste alcun ritardo, a meno che non ci si perda il presente.

E la dea? È il tralcio luminoso, neve dal dolce incarnato che è fuori dal tempo? Colei che superando gli apparenti ritardi dell’amato, del padre, di se stessa… riafferra il proprio polso, che ci espone nel terzo ciclo Bastet nel palpito. Bastet – figlia del Sole e della Luna, piena di grazia, dea dell’indipendenza, della solitudine e simultaneamente dell’unione, della dualità nel singolo – negli ultimi versi prende vita e si salva dall’oblio.

Chi è allora il dio, chi la dea? «La poesia si trova ovunque nell’aria e solo un po’ nei libri, allo stesso modo il sacro è onnipresente nella vita e solo un po’ nei conventi», chiosa Bobin. Sono la dolcezza e la bontà che producono la divinità. La dolcezza origina il desiderio, il desiderio origina il dolore, l’eterno humus della sacralità.

La brama di silenzio non è aspirazione al mutismo. La poetessa canta, cattura la poesia nel libro. Riemerge dalla notte: è un’alba nel tramonto? La dualità nel singolo? Bastet? La voce riconosciuta?

La Dea esiste, dunque. Il ritardo, invece, non è che una fittizia categoria di pensiero che si fonda sulla cronologia, sul susseguirsi delle ore. In sostanza è tristezza. Una responsabilità illegittima. Ogni tristezza affonda le sue radici nel battere in ritirata davanti al processo di riconoscimento. Riconoscere e ammettere sono una questione di felicità, non di responsabilità. E il momento è sempre giusto. Non è mai troppo presto, mai troppo tardi per individuare la voce, per immettersi nel palpito, per divenire luce, gioco, totalità, dea.

E se la dea esiste, nient’altro conta al di fuori dell’eternità: È fuori dal tempo, tralcio luminoso, neve dal dolce incarnato.

E in questo credo si esaurisce anche l’anacronismo/ossimoro della Dea in ritardo. Questo l’incipit della poesia che chiude la raccolta:

È gioia d’impalpabile mussola

nella tramontana

è grido di gabbiani o di bimbi

che mi stordisce

mentre ci avviamo al tramonto

La voce riconosciuta? Insegna s. Paolo: «Quand’anche io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, se non ho la carità, io sono bronzo che suona o un cembalo che squilla» (1Cor, 13).

La raccolta poetica si conclude nel riconoscimento della primordiale naturalezza, della causa prima, del senso: grido di gabbiani o di bimbi, vale a dire amore, donazione. Così termina l’ultima poesia:

Cuore sincopato

nel soffietto dell’allegro

allegro sì

Sii!

Su!

Prendimi!

Fertile

come ombrosa collina

di ringraziamento

Eppure quant’è difficile sfuggire al binomio eros-thanatos. L’harem del sacro, del santificato, rimane l’ineluttabile luogo d’incontro: concepimento, nascita, morte. Anche volendo banalizzarlo al massimo, ridurlo al minimo, vanificarlo, il suo mistero c’imbriglia spietatamente nel sacro ordine delle cose. In un fascinoso meta-significato che, non da ultimo, si riflette anche nella poesia di qualunque genere, perfino in quella nichilista o verista o ludica… in caso contrario l’atto creativo sarebbe inane. E la poesia è già di per se stessa una primadonna, dea conscia della sua esistenza.

La poesia di Maja Gal Štromar, negli slanci giocosi come nei suoi accordi più cupi, è sempre tesa a prendere coscienza del proprio ruolo lungo le strade, praticabili e non, dell’esistenza, a verificare i rapporti e ad avvicinarsi al nucleo essenziale-esistenziale o al faustiano “sì” alla vita – all’eternità che non ha fine, ma che proprio nell’individuo si fa variabile eterna:

Eppure

la perenne eternità

mi pervade

E se temo

i mutamenti

temo

la vita

Ecco perché la poesia della Dea in ritardo è eroica, divina.

 

1 Il verso è tratto da un racconto inserito nella raccolta originale La parte manquante (Gallimard, 1989) e tradotto in sloveno con il titolo Blodeča misel. Il testo è tradotto anche in italiano (C. Bobin, La parte mancante, ed. Servitium, 2007), ma risulta di difficile reperibilità. Il presente saggio si basa sulla traduzione slovena.