Il cuore di amigdala

Il cuore di amigdala - Maja Gal Štromar

1983 – RALLENTAMENTO

Il valore del rapporto personale e nell’intimita che lo provoca. L’intimita crea comprensione e la comprensione amore.”

Prima primavera a Parigi. Incredibile ed inaspettata. Mentre Gala procedeva lungo l’autostrada verso la Normandia, nel suo cuore s’intessevano ragnatele di dubbi. Su e giu, e poi lungo le brutte e tortuose strade regionali, che, proprio in quel periodo, venivano costruite e rinnovate. Ormai era tempo della prima pioggerellina quasi primaverile e delle ultime gelate. Nelle narici penetrava la prima tiepida brezza. Gala correva dal suo uomo senza riserve. Erano assieme gia da parecchio tempo, quasi sei mesi ormai. Parecchio, potremmo dire. Perché a volte il tempo non si puo misurare.

Ma a quel tempo Gala ancora non sapeva che nell’insieme si trattava solamente di un egoistico rovistio tra sentimenti spenti. Come un’accanita attivista si era afferrata al pensiero che tra loro sarebbe potuto nascere un qualche nobile sentimento. Jean-Baptiste era nel processo disepararsi. Da una certa polacca. Buba si chiamava. A dire il vero, non era mai stato sposato. Si era solamente stabilito a casa di lei, aveva accettato i suoi figli e li aveva mantenuti. O almeno cosi le diceva. Come ripeteva anche volentieri che i nomi non sono altro che portatori incoscienti dei nostri destini. Dopo sghignazzava e diceva: “Ecco vedi, Buba si e imbubita e io probabilmente non sono stato il primo!” Quanto parlava! E Gala riusciva a spezzare a stento il suo silenzio, tra tutti quei mormorii a proposito di una qualche teoria sulla vita, che proferiva come un vecchio saggio anche quando lei desiderava solamente il suo contatto. Sapeva quasi tutto. Aveva un’opinione su tutto, conosceva tutti i movimenti, politici e non. E, nutrendo gran disprezzo per questo mondo, annaffiandolo con whisky o vino, credeva probabilmente che fosse tutto vero. Che fosse egli stesso il fratello di Gesů Cristo, che, come due martiri, fossero nati in questa cloaca di depravati e degenerati; che la sua vita fosse solo un dono alle persone ingrate. Uomini e donne che fossero. Si, questa differenza la sottolineava attentamente.

Puttane le chiamava. Gala sedeva vicino a lui e lo ascoltava. Le propinava lunghi discorsi di piů ore sulle femministe, sulle donnacce, che con la loro energia puttaniera, attiravano gli uomini, fregandoli in un modo o nell’altro. Naturalmente, ornava tutto cio con l’eccezionale carattere pittoresco dei testicoli maschili che, imbattendosi con una larga e rossa fessura, eventualmente dentellata, dimagriscono dalla passione, decadono, e tutto questo a causa di questo diavolo d’una donna, messo al mondo Dio sa solo il perché. Dopodiché ghignava, sincopatamente, gorgogliava a ritmi strani, allargava le sue gambette grottescamente corte, fino a che l’alcool non gli aveva rammollito le ultime cellule cerebrali, e tirava Gala verso di sé. Le sbottonava la camicetta e si tuffava tra i suoi seni. “Tu non sei cosi!” le diceva, “Tu non sei cosi, tu sei la mia topolina.” Quasi la rallegrava con le sue dicerie. Poi la prendeva per mano e la tirava verso il suo rigonfiamento. La gettava a terra e ripeteva fino al culmine: “Ti scopo, ti scopo, ti scopo …” Dopo pochi istanti russava di gia. Gala tratteneva il respiro per non svegliarlo. Si sentiva… Pensava fosse giusto cosi. E in un certo modo, nella sua stupidita e nella sua vulnerabilita, si ripeteva addirittura: “E bello avere qualcuno al proprio fianco.” Poi arrivo quel giorno quando si diresse da lui, in Normandia. Lungo la strada si era fermata in un grande magazzino e si era comprata delle creme per il viso. Come impazzita le ha gettate nelle immondizie. Creme al collagene, capsule alla vitamina A per il rinnovamento della pelle, al retinolo, con estratti di questa e quella stregoneria, che potessero spianarle le rughe precoci. Alla commessa dietro al banco aveva spiegato come la sua pelle, eternamente esposta a giudizi, fosse perennemente protetta da un velo di cipria. In realta temeva il faccia a faccia con Jean-Baptiste. Sapeva che quella notte si sarebbe spezzato qualcosa. Quand’era arrivata a notte fonda sotto la sua abitazione, era rimasta per un po’ seduta in macchina. Poi aveva tirato fuori il telefonino e lo aveva chiamato. Quando egli rispose, era molto riluttante.

Sapeva che sarebbe venuta, forse presagiva che si stava preparando alla lotta. Alla prima vera battaglia, quando ti dici che non funziona piů. Quando per la prima volta ti rendi conto di essere il maledetto carnefice di te stesso. Che le grandi parole d’indulgenza sono inutili e il dare liberta ad un proprio simile, al partner non e altro che un grande spinello calmante, che ti dondola in un’apparente nobilta dell’anima della madre ausiliatrice. In realta questo e un favoreggiamento ipocrita, verso di sé e verso la propria presunzione, per la propria impotenza. Egalité, fraternité, mio Dio, quante partigianita scorrevano nelle vene di Gala. Era come una qualche sorella, una compagna d’arme, un essere femminile che stava a fianco di Jean-Baptiste. Al suo dondolarsi a causa dell’anca dolorosa. Se ne stava la come una muta testimone. Senza nome, senza desiderio.

Sono io, sono sotto casa, posso salire?” ha sospirato alla cornetta. Jean-Baptiste ha mormorato qualcosa. Gala e sgusciata a fianco della portinaia. L’aspettava la porta socchiusa. Entrata nella piccola stanza, lo ha trovato sul letto. Giaceva come un tronco, guardava la televisione con il telecomando in mano. Stavano trasmettendo un concerto della filarmonica di Vienna: Čajkovski. Un uomo che ama la musica, si era piů volte ripetuta Gala, ama la vita, ama la bellezza, la perfezione.

Perché solamente la musica ha la forza di un linguaggio diretto, dove tutti i malintesi si disperdono, dove i corsi invisibili d’un aritmetica pluridimensionale, si riuniscono in un solo tocco divino. Da qualche parte nello stomaco sentiva tutte le salite e le cadute, tutte le sfumature di questa perfezione. Si ricordava del 23esimo concerto di Mozart per pianoforte. Cosi maestosamente puro. E tutti i suoi crescendo se li era immaginata come amore, come una certa drammaticita, tensione, come l’amare, come un tocco delicato che cresce in una passione stordita, fino a che, attraverso la grande porta, entra l’orchestra. Tutti gli strumenti a corda, a percussione, a fiato, tutti si accordano ad un solo del pianoforte. Il palcoscenico si mette in moto, tutto si scioglie, si libera in una grande onda e la musica diviene fregata, larga, rapida, possibile. Nella sua vulnerabilita ritaglia onde. Come la vita che Gala si era sempre immaginata. Come la vita d’ogni individuo. Il quale fa la sua comparsa adagio, come un tono suonato ad una mano, nella chiara, sonata di puliti intervalli d’eguale lunghezza. A cio si aggiunge la complessita del mondo, che gli consente l’entrata ed insieme veleggiano nel grande mare. In uno spazio sconosciuto di chiarori e maltempi, che in un intreccio illogico danno a questi piccoli, vaganti, possibili, tremolanti gusci di noce un qualche significato che Gala in momenti d’enfasi amava chiamare commovibilita. Si, commovibilita. E ancor di piů, commozione.

Stronzate.

Adesso giaceva sul letto con la camicia sbottonata, con i jeans. Vecchio. Per la prima volta Gala vedeva quanto la vecchiaia si e accanita nel suo sguardo. Jean-Baptiste. Un tipo affascinante appena quarantenne. E lei, una ragazza giovane con le creme al collagene nella borsetta. “Mi vuoi un po’ di bene?” gli chiedeva mentre, giŕ da due ore fissavano lo schermo in silenzio. “A modo mio” le rispondeva. Poi tacevano.

Non ti ho promesso nulla” aveva sibilato all’improvviso. Il silenzio di lui era troppo pesante da poter essere sopportato. “Diamoci tempo!” aveva poi aggiunto.

Gala lo guardava in silenzio. Sulla mensola vi era un bicchiere di bordeaux, della carta luccicante nella quale erano avvolti dei marrons glacés e dei cubetti di marzapane.

Non mi hanno ancora pagato, maledetti taccagni!” aveva ad un tratto esclamato Jean-Baptiste, e si era stretto a Gala sul lato destro del letto. Probabilmente una qualche stupida pubblicita di un pagamento a rate gli aveva fatto venire in mente i soldi. “La mia topolina mi impresterebbe qualcosa?” Gala aveva annuito, come sempre fin ora. Quanto lontano doveva andare solo per sentire quello che nel profondo aveva capito gia da molto tempo. Quanto in basso doveva strisciare, come una bestia denutrita, quanto doveva essere ferita affinché, finalmente si disincantasse e facesse il passo liberatorio. Andata. Aveva finito di paralizzarsi, di dondolarsi in una qualche illusione che sarebbe stato diverso. Che l’uomo durante la separazione si addolorasse come una mimosa. E che lo doveva capire. Ciascun minuto era carico di riflessioni sulla sua situazione. Nei momenti felici Jean-Baptiste diceva che alla nascita gli era stato dato il nome di un detersivo. E che forse per questo il suo destino era stato scritto all’insegna della pulizia, dello spazzare, del lavare. (In Francia un detersivo che sapeva di ammoniaca si chiamava J.B.). Ed era per quello che adesso si ritrovava in quello stato. A Gala ronzavano attorno domande: cosa pensa, cosa prova, come la vede, come lo puo aiutare, cosa ha intenzione di fare. Cosi fortemente lui, che si era dimenticata di sé. Se ne stavano distesi al buio. Gala avrebbe voluto gattaiolare fino alla porta, prendere le chiavi e scappare.

Cosi, senza salutare. Ma non poteva. Immobile, come incatenata al letto aveva vegliato fino al mattino. Pensava che di notte avvengono miracoli, il giorno avrebbe portato la risposta, Jean-Baptiste si sarebbe svegliato, l’avrebbe abbracciata e le avrebbe detto che sarebbe stato diverso. Che per lui lei significava qualcosa.

Alle sette doveva andare al lavoro. Si era svegliato alle sei, aveva buttato per terra le mutande ed era andato sotto la doccia. Gala lo aveva raggiunto. Se ne stavano sotto il getto dell’acqua. Con la mano destra la cingeva attorno alla vita mentre con la sinistra iniziava ad insaponarle la schiena e i seni. Poi, spingendola l’aveva girata premendola sulla piastrelle ghiacciate e, in tre spinte, si era liberato in lei.

Corro o farň tardi!” ha aggiunto. Gala si era rivestita in silenzio. Mentre lui si faceva la barba, lei se ne stava sulla porta del bagno. Si sentiva come ad una gara.

Disciplina: lancio del disco. Lancio del peso di piombo. Lo guardava: pesante e freddo. Se ne stava davanti a lei e l’aspettava. Ma Gala non sapeva come fare. Era senza allenamento, senza esperienza non era in grado, non sapeva come superare se stessi, come scagliare quest’affare da qualche parte, lontano, dove si riesce a superare la banalita del risultato. Sapeva solo che era arrivato il momento. Stava in piedi. Sempre sulla porta, apparentemente tranquilla e sciolta. A Jean-Baptiste piaceva proprio questo di Gala, o almeno cosi sempre ripeteva. Nessun conflitto, nessuna domanda, nessuna richiesta, nulla. Solo una tacita accettazione ed un eterno accordo, un benvenuto col sorriso. Continuava a radersi ed a chiacchierare, diceva che la vita era una lotta, che non ci era dato niente per niente, che la clemenza divina non esiste. E tutto uno sterile combattimento, una lotta, gridava.

Nell’entusiasmo si era tagliato ed aveva maledetto tutte quelle sue “Puttane delle vostre madri!” intorno. Nel lavandino cadevano gocce rosse. Lo vedeva di spalle.

Diagnosi: una delicata protuberanza della parte superiore. Quasi una gobba. Ed ora il lancio di Gala. Sapeva che il risultato non era piů importante. Desiderava soltanto lanciare. In quell’istante, quando la mano e il palmo si separano dal pezzo di piombo. No, né la sua traiettoria di caduta, né il suo atterraggio, né la distanza, né quell’assurda misura di una grigia ed insignificante pallina erano importanti. Ancor meno l’attesa per i premi. Che noi uomini, pagliacci dal comportamento frivolo, ci inventiamo dolorosamente. Avrebbe dovuto solamente prendere la rincorsa, ma non troppo forte, affinché nell’estro da capogiro dovuto al lancio, non raggiungesse punteggio zero. Quando Jean-Baptiste ha esclamato per l’ultima volta: “Stronza!” ha lanciato. Tiro. Un tiro maldestro. Le ha fatto perdere l’equilibrio. Esitava ancora, cercava la fermezza al suolo, saltellava ancora sul posto, strisciava maldestramente lungo la vecchia pista sbiadita. Ancora non riusciva e non poteva chiedere. Che l’aspettasse, che la capisse. Amasse. Fino a che, alla fine, non ha sentito il richiamo di una certa terra rossa che era in lei, un magma caldo, umido, non ancora modellato, che pulsava nel profondo del suo essere e reclamava una giusta fecondazione.

Si e girata ed ha detto: “Tu lotta pure Jean-Baptiste, io me ne vado.”

Sbatté violentemente la porta e percorse piangendo quei duecento chilometri. In seguito dormi per due giorni di fila. Quando si risveglio e si alzo, inciampo nelle scatole vuote di cioccolatini, nei biscotti mangiati a meta, i piedi si incollarono su un budino rappreso. Sotto il letto era rotolata una bottiglia vuota di J & B. Sulla segreteria telefonica lampeggiava una lucetta rossa. Jean-Baptiste. Con una voce incredibilmente rauca e solenne diceva: “Ciao, ho un biglietto per te. Per un concerto di gala. Si …di gala per Gala” e ghignava… “Spero che verrai, Garnier sara pieno di vip!”

In Gala nel profondo, ma a dire il vero adesso piu in superficie, luceva ancora la pallina di piombo. Adesso era solo sua. Ruotava in lei e questo, in un certo modo, la rassicurava. Le dava una dolorosa consapevolezza di sé. Tutto era in lei.

Tutto il peso di domande senza risposte. Tutte le insicurezze, tutta la confusione.

Solo sue. E, a causa del J & B e della faccia spaccata, una spaventosa emicrania.

Dopo e arrivata una nuova primavera. Lentamente si e intrufolata tra i rami e scalpitava sotto casa. E diventava sempre piu pericolosamente inquieta. Inquieta come la citta che l’accompagnava. Una citta vuota. Una citta di facciata.

Era lei, forse.

Gala.

Puttanella bulimica.

Tradotto da Daria Costantini,

Universita degli studi di Padova